Teatro

TRIONFA A RAVENNA IL NABUCCO DI MUTI

TRIONFA A RAVENNA IL NABUCCO DI MUTI

In una recente intervista rilasciata a L’Espresso, Franco Zeffirelli ha spiegato che «nel mondo dell’opera s’intrecciano molteplici energie individuali che debbono trovare un’armonia comune, senza la quale è difficile che si possa arrivare a risultati positivi», asserzione che riassume perfettamente il necessario connubio di mestieri e sensibilità diverse – quelle del regista, dello scenografo e del costumista, oltre che dei cantanti, del direttore, dei musicisti – che costituisce l’essenza stessa del melodramma: genere di spettacolo da gustare non solo con le orecchie, ma anche con gli occhi. E’ per questo che porre in cartellone un’opera in forma di concerto è una decisione inconsueta, se non proprio rara; una scelta presa però un po’ più spesso negli ultimi tempi, a causa della congiuntura economica attuale che consiglia talora di risparmiare le considerevoli spese di uno spettacolo tradizionale. A questo genere di esecuzioni sono più avezzi gli habitués di certe sale da concerto – penso a Santa Cecilia, o al Mozarteum di Salisburgo – dove esse sono cosa abituale; assai meno lo sono però i frequentori dei nostri teatri. Nondimeno, riascoltare un’opera -dal vivo, intendo, non in disco - senza la distrazione del lato visivo e concentrandosi solo sulla musica, è un’esercizio utile che consente di porre a fuoco i valori intrinseci d’una partitura; specialmente se quel titolo è arcinoto, e quindi si sospinti ad affrontarlo con inevitabile nonchalance.
Per quanto concerne il Ravenna Festival 2013, molte energie in realtà sono rivolte all’appendice autunnale che vedrà in scena al Teatro Alighieri, in tre giorni consecutivi e per due week-end, altrettanti capolavori verdiani, cioè “Macbeth”, “Falstaff” ed “Otello”. L’anno scorso, per inciso, sempre ad ottobre si vide il Trittico Romantico per eccellenza, vale a dire “La traviata”, “Rigoletto” e “Il trovatore”. In entrambi i casi, presentati con le idee registiche di Cristina Muti Mazzavillani e la concertazione di Nicola Paszkovski. Di qui probabilmente nasce la volontà di non approntare altri allestimenti ma accontentarsi (si fa per dire) di presentare un “Nabucco” senza scene né costumi, allineando in compenso sul palco del PalaDeAndrè un cast di tutto riguardo – vedremo dopo chi – sotto la bacchetta autorevolissima di Riccardo Muti. Non è oltretutto una scelta casuale, ma il frutto di una aculata programmazione, perché subito dopo questa serata che costituiva l’evento conclusivo del Festival 2013, nella seconda metà di luglio questo stesso “Nabucco” guarda caso approda sul palcoscenico dell’Opera di Roma con regia e scene di Jean-Paul Scarpitta e i costumi di Maurizio Millenotti (vale a dire lo spettacolo che nel 2011 celebrò i 150 anni dell’Unità d’Italia), prima di ripartire per il Festival di Salisburgo dove sarà eseguito, nuovamente in forma di concerto, il 29, 31 agosto e 1 settembre.
Non è un mistero che Muti abbia una passione particolare per quest’opera, come dimostrato sin dalla arcinota incisione del 1977; ma da allora ad oggi sembra aver smussato certi eccessi ‘toscaniniani’, in particolare quel senso di urgenza drammatica che lo spingeva sovente a far tabula rasa di ogni concessione agogica, sacrificando rubati, varietà di fraseggio, mutamenti di dinamica, rallentandi e accelerandi sull’altare di un’ideale stringatezza narrativa. Risultato che allora piacque a molti, in verità; mentre ad altri - come il sottoscritto - riusciva piuttosto lontano dal vero spirito verdiano. Da tempo però non è più così: il metronomo e lo spirito non ricordano più le rigidezze di Toscanini; e se rimane intatta la vigoria virile e tragica della lettura, si aggiungono nel Muti di oggi una bella elasticità, varietà e leggerezza del fraseggio, un consapevole abbandono al fluire musicale che lo porta a guardare non solo alla resa del dettaglio, ma anche al respiro complessivo; nonché a stabilire un rapporto voci-orchestra assolutamente ottimale. Tutte cose che fanno del “Nabucco” di Muti uno dei migliori possibili e immaginabili, specie se a fargli da spalla è un’orchestra di rango: e sotto questo punto di vista, quella dell’Opera di Roma sembra oggi irriconoscibile, lontana com’è dalle modeste prestazioni routiniere di qualche anno fa. E’ l’effetto delle attenzioni con le quali il maestro napoletano (qualcuno parla maliziosamente di “cura Muti”) l’ha portata a divenire una compagine precisa e duttile come forse mai era stata, e in più dal suono pieno e corposo nelle sezioni degli archi ma soprattutto in quella dei fiati. Una vera, grande orchestra, in mano ad un grandissimo direttore.
Nè vogliamo certo passare sotto silenzio l’ottimale preparazione che il Coro dell’Opera romana ha raggiunto grazie a Roberto Gabbiani, chiamato in queste due ultime stagioni a riordinarne le fila; preparazione che ha permesso si affrontare con sicurezza i tanti momenti corali di quest’opera verdiana.
Anche il cast, come anticipato, vedeva allineate emergenze eccellenti. Luca Salsi sta dimostrando una volta di più d’essere uno dei migliori baritoni verdiani oggi disponibili, ed è per questo che ci ha consegnato un Nabucco da antologia. Lasciando da parte la bellezza naturale del timbro, e la pienezza sonora, Salsi centra perfettamente sia il carattere irruente del condottiero vittorioso, sia la statura epica del sovrano decaduto; e lo fa senza sbavature, senza esitazioni, eseguendo tutta la parte con fantasia e varietà di colori, salda eloquenza, morbidezza aristocratica.
Tatiana Serjan era in splendida forma, sostenendo gli slanci ferini della figura di Abigaille con una vocalità potente e ben controllata, una tecnica sempre adeguata nei passi di agilità, provvedendo a disegnare a dovere mezze voci e colorature; rendendo insomma, nella sua intima drammaticità, tutta la pienezza del personaggio della figlia spuria del re di Babilonia. Zaccaria è l’altro ‘primo’ ruolo di “Nabucco”, e Riccardo Zanellato lo ha scolpito per noi sino in fondo, con nobiltà e severa elequenza che trovano esaltazione nel suo timbro caldo e pieno, come pure nel fraseggio esemplare. Sonia Ganassi era una Fenena extra lusso, ambrata e calibratissima; ed ha formato una coppia irreprensibile con la vocalità solare - ma qui, trattandosi del combattuto Ismaele, giustamente venata di flessioni melanconiche - di Francesco Meli. Luca Dall’Amico era il Gran Sacerdote di Belo, mostrandosi interprete signorile e ben calibrato; molto bene il giovane soprano turco Simge Büyükedes come Anna, e Saverio Fiore come Abdallo.
Un pubblico di circa 4.000 persone – questa la piena capienza del PalaDeAndrè - ha tributato a tutti entusiastici applausi, veramente meritatissimi.